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La rinnegata
di Valeria Usala

Garzanti, 23 aprile 2021

pp. 208
€ 16 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)





La protagonista Teresa ha sempre saputo di doversi guadagnare ogni singolo momento della propria vita: da orfana, ha faticato per riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena e poi per costruirsi insieme al marito Bruno una famiglia, una casa, ma anche un emporio fiorente e la più recente osteria, che gestisce lei stessa, nonostante debba anche accudire i loro tre figli. Dunque, che cos'ha da riproverarsi? Nulla, se non la sua bellezza, che - per quanto mai esibita - non fa che attirare gli sguardi e le parole degli uomini e le malelingue delle loro mogli, gelose. C'è chi come Carlo, minatore che spesso si ferma a mangiare all'osteria, avanza complimenti e proposte apertamente. Che cosa può fare Teresa, quando dovrà prendere decisioni da sola? In paese tutti guardano con sospetto la sua indipendenza, che è qualcosa di inaccettabile, eppure Teresa porta avanti con grande dignità e senso dell'onore una battaglia per la legittimità della propria autonomia. 

D'altro canto, il paese ha già mostrato grande chiusura quando anni prima anche un'altra donna, Maria, è stata rinnegata: la sua storia, che si intreccia a quella principale di Teresa, è altrettanto ingiusta e straziante. Le decisioni prese d'impulso e gli errori non vengono perdonati, sembra sibilare il paese, che vede Maria semplicemente come la "bruja", la strega del villaggio, e che non manca di riservarle il sospetto che la donna in realtà non merita. 

Mentre seguiamo questa storia, osserviamo accanto alla protagonista gli sguardi degli altri, dei compaesani, che si stringono addosso a Teresa, la giudicano, provano a spogliarla della sua fierezza, per invidia delle sue ricchezze e della sua bellezza, ma forse anche e soprattutto della sua forza d'animo. Presagiamo il dramma e al tempo stesso vorremmo arrivare a scoprire che cosa avviene e rimandare il più possibile questo momento. Commozione e rabbia si mescolano in questa lettura, ma a questi si aggiunge una prepotente ammirazione per la capacità di Valeria Usala di portarci lontano nel tempo e nello spazio, dentro sentimenti atavici, ma anche dentro parole, usi e costumi locali. Se è indubbio l'omaggio alla Sardegna (e alla sua letteratura), in La rinnegata distinguiamo uno stile autonomo, che ora sa farsi lirico ora più realistico e duro, ora testimonia il passo delle grandi storie di un popolo. E ringraziamo che, proprio come la sua protagonista, Valeria Usala ha vacillato, considerando che «l'esistenza, in fin dei conti, è solo un ricordo sbiadito dentro i cuori altrui» (p. 25), perché così ha trovato la forza per trasferire sulla carta una storia che sopravvivrà al tempo e che, speriamo, possa far conoscere l'autrice nel panorama letterario.

GMGhioni 

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Peter Pan 

di J.M. Barrie 
L’ippocampo, 2020

Illustrazioni di MinaLima
Traduzione di Millie Dandolo
 
pp. 256
€ 31,11 (cartaceo) 
 



C’è qualcosa di stupefacente nella differente percezione che si ha quando si rileggono da adulti le storie che ci avevano affascinato e fatto sognare da bambini. Nel riprendere in mano 
Peter Pan, nella meravigliosa edizione de L’Ippocampo illustrata dall’insuperabile team MinaLima, la prima cosa che colpisce il lettore ormai cresciuto è il testo. Ebbene sì, perché d’improvviso si notano tutti quei dettagli di cui da piccoli non si percepiva l’importanza, o la densità: lo sconcerto di Wendy, che scopre a due anni che è destinata a diventare grande, e quello è “l’inizio della fine”; la tenerezza della signora Darling, con un bacio appeso all’angolo delle labbra, che inizia a disegnare figurine senza volto di bambini sui bilanci di casa, fino a quando non arrivano tre figli tanto voluti, che la sera accudisce rimettendogli in ordine i pensieri e trovando tracce misteriose di quell’impudente di Peter; e poi ancora l’ironia con cui vengono ritratti il cipiglio e il contegno serioso del signor Darling, o la disperazione dei genitori quando, una sera, tornando da un ricevimento, scoprono la sparizione delle loro creature (“erano nostri, nostri, e adesso se ne sono andati!”, p. 84).
Ci vuole poco, ai fratelli Darling, tentati da quel monello senza radici di Peter Pan, per lanciarsi nella nuova avventura dimentichi di tutto: la prima cosa che accade, mentre volteggiano tra i campanili e le nuvole verso il Paese-che-non-c’è, è che perdono il senso del tempo, e con esso il legame con casa loro, e con la realtà consueta, che appaiono già lontani e sfocati alla memoria. L’arrivo all’isola ha il sapore del ricongiungimento, almeno finché non inizia a rivelare i suoi nuclei d’oscurità (“così bruscamente i tre ragazzi terrificati appresero la differenza fra un’isola delle favole, e la stessa isola quando diventa realtà”, 74). Chiunque abbia letto le fiabe senza la mediazione di Walt Disney sa bene, del resto, che in ogni percorso di crescita si annida qualcosa di spaventoso e inquietante.
E che dire poi di Peter? Un’altra di quelle figure amate che, una volta ritrovate a distanza di anni, si guardano in un’ottica completamente nuova (forse perché siamo ormai più vicini alla prospettiva dei Darling che a quella dei loro bambini, e Peter Pan nei nostri sogni non appare più da tanto tempo). Peter è capriccioso, vanesio, impulsivo. È privo di legami, leggero e incostante come l’aria, un piccolo diavoletto tentatore. Tutto per lui è gioco, e per questo non prende sul serio le esigenze e le paure altrui. È l’eterno fanciullino, e questo lo rende egoista. Al contempo, Peter è pura vita, pura energia. È grazie a lui che l’isola si ridesta al giorno, che sono possibili mille avventure. Avventure che lui affronta sempre con la sicurezza di chi non ha niente da perdere, con l’irruenza e la sfrenatezza dell’incoscienza più pura. L’esistenza sull’isola è talmente totalizzante che non esiste più distinzione tra immaginazione e realtà, ed è anzi la vita di prima a sembrare un pallido sogno. Solo Wendy, pur totalmente assorbita dal suo nuovo ruolo (disturbante, per il lettore adulto) di mammina per i bambini perduti, prova inizialmente a mantenere vivo il ricordo del passato e spinge i fratelli, più prossimi all’oblio a ripensare ai genitori che li aspettano a casa e da cui pensano, prima o dopo, di tornare, certi di trovare la loro finestra ancora aperta, sempre aperta.
Via ce ne andiamo, come quelli che nel mondo sono i più senza cuore, cioè i ragazzi, ma pure così attraenti; e viviamo pienamente per un certo tempo secondo il nostro egoismo; e poi, quando sentiamo il bisogno di particolari cure, ritorniamo dignitosamente, fiduciosi di essere abbracciati invece che schiaffeggiati. E davvero così grande era la loro fede nell’amore materno che credettero di potersi permettere di essere insensibili ancora per qualche tempo. (p. 163)
Al contempo anche Wendy viene assorbita dalla vita del Paese-che-non-c’è, che è pieno di cose da scoprire, di pericoli da affrontare, di prove da superare per i giovanissimi abitanti. Solo il momento in cui inizia a dubitare della possibilità del ritorno, dell’attesa fiduciosa della vita di prima, qualcosa in lei si spezza e la spinge verso casa. Ma l’abbandono dell’isola è un passo definitivo, che non permette ripensamenti. E deve passare forse attraverso la suprema avventura, il confronto con il nemico dei nemici, il capitano James Uncino. È interessante notare a posteriori come anche Uncino sia figura complessa, sfaccettata: crudele, ma a sua volta con alcuni tratti che attenuano la sua malvagità (reale? apparente?): gli occhi color pervinca, la sua ossessione per le buone maniere, alcuni pensieri che lo fanno uscire dal suo ruolo, solo per brevi momenti. La sua morte, seppur necessaria, è amara, come è amaro il fatto che gli siano offerte ben poche possibilità di redenzione. E del resto è malinconica, a suo modo, anche la condizione di Peter, che guarda attraverso le finestre altrui felicità che gli sono precluse e poi se ne va, per sempre smemorato, sempre alla ricerca di una madre con cui sostituire quella un tempo perduta, spaventato all’idea di diventare grande.
Si deve notare che, nonostante la lettura del romanzo di J.M. Barrie riservi qualche sorpresa al lettore adulto, ne riserva sicuramente di più, a grandi e piccini, la lettura del romanzo in questa specifica edizione, impreziosita dalle immagini e dagli elementi interattivi a cui l’equipe MinaLima ci ha abituato, ma che continuano a sorprenderci: le cartelle cliniche dei piccoli Darling che si allargano fuoriuscendo dalle pagine, la mappa dell’isola-che-non-c’è, l’orologio del coccodrillo di Uncino che ci pare quasi di sentir ticchettare, l’applausometro delle fate con cui viene salvata la bisbetica Campanellino, la sagoma aerea e lieve della fata con le sue ali celesti... in aggiunta alle grafiche stilizzate, minimali e pertanto più suggestive delle illustrazioni, gli elementi tridimensionali, con cui è possibile interagire, riportano il volume alla dimensione del gioco che sollecita il bambino che è rimasto in ciascuno di noi, e sono pertanto assolutamente in linea con la storia stessa di Peter Pan, con quello che il buffo ragazzino continua a risvegliare in chi lo incontra.

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Il giovane Victor Hugo contro la pena di morte

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L'ultimo giorno di un condannato
di Victor Hugo
Feltrinelli, 2016

Traduzione di Donata Feroldi
1^ edizione originale: 1829

pp. 176
€ 8,50 (cartaceo)
€ 2,99 (ebook)


Quando pensiamo a libri contro la pena di morte, ci viene subito in mente - vuoi per la sua risonanza, vuoi per ricordi scolastici - Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Pamphlet di invidiabile chiarezza e acume, certamente figlio dell'Illuminismo, a cui però è bene affiancare questo breve romanzo di Victor Hugo. Scritto in poco più di due mesi (tra novembre e dicembre del 1828) da uno scrittore ventiseienne, il libro trova pubblicazione anonima nel gennaio 1829 col titolo Dernier Jour d'un Condamné e suscita immediatamente lo scandalo. 
A destare più sconvolgimento è la scelta di un narratore omodiegetico, al tempo stesso io narrante e io narrato: se il pamphlet era un genere a cui ormai il pubblico era avvezzo, un romanzo intimistico che finge l'autobiografia di un condannato a morte è qualcosa di molto eversivo per l'epoca (e che ci tocca ancora oggi). Eppure Hugo, nell'adottare per la prima e unica volta il narratore interno, ha capito una cosa: solo così può raggiungere non tanto la mente, ma l'anima dei lettori, abbattendo le loro difese preventive. 
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Contro il conformismo delle parole moderne... "Il dimenticatoio"!

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Il dimenticatoio. Dizionario delle parole perdute
Franco Cesati, 2016

Con illustrazioni di Elinor Marianne
pp. 216
€ 16 (cartaceo)



Le parole ci affascinano. Utili o estetizzanti, tecniche o generali, sentimentali o descrittive, arcane o quotidiane, popolano ogni giorno le nostre vite. Benché si gridi all'analfabetismo di ritorno e all'impoverimento del lessico a poche migliaia di lemmi, ci sono fortunatamente alcune opere che possono aiutarci a rinfocolare un piacere atavico per gli italiani: quello di scoprire il significato di parole inconsuete. 
Il dimenticatoio, uscito prima di Natale per i tipi di Franco Cesati Editore, è un dizionarietto allegro, graficamente accattivante, che non ha nulla di distanziante o iper-specialistico. Al contrario, un'equipe ha selezionato quasi 2000 parole che hanno in comune una sola cosa: essere ormai considerate desuete. Ad esempio, che significano "bretto", "ineunte", "babbignocco", "mecco"? Sono solo alcune delle parole perdute, che vengono sobriamente accompagnate dal loro significato e, talvolta, dal contesto storico, sociale o artistico in cui si sono affermate.
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La famiglia ai tempi del post-capitalismo: quando il Nido è un rifugio tutt'altro che sicuro

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Il nido
di Cynthia D'Aprix Sweeney
Frassinelli, 2017

Traduzione di Ada Arduini e Lucia Olivieri

pp. 359
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Cosa fareste se vostro padre vi lasciasse in eredità un "Nido", ovvero un fondo di risparmio che nel tempo è cresciuto oltre ogni immaginazione? Probabilmente verrebbe a tutti almeno una volta il pensiero di fare affidamento su quella piccola certezza per togliersi uno sfizio, pagare i propri debiti, concedersi un rischio notevole al lavoro,... Il problema è che la stessa idea, declinata in modi diversi, viene a tutti e quattro i fratelli Plumb. Certo, sanno tutti che non potranno toccare i soldi fino al raggiungimento del 40esimo compleanno della sorella Melody, ma tanto "il Nido" sta lì, ben protetto dalla banca. In fondo, l'unica ad avere diritto sul fondo anzitempo è la madre. E secondo voi che cosa viene in mente alla madre, quando uno dei figli, Leo, ha un terribile incidente in auto e la ragazza che sta con lui (in condizioni a dir poco compromettenti) subisce l'amputazione di un piede? Leo va tolto dai guai, chiuso per un po' in una clinica di disintossicazione, con la certezza che i fratelli capiranno... Muove da qui, dall'uscita di Leo dalla clinica e dall'incontro-scontro inevitabile con i fratelli, una vicenda tutt'altro che prevedibile. E mentre aspettiamo con Bea, Melody e Jack l'arrivo di Leo all'Oyster Bar, ecco che sorseggiamo le loro vite, gli antefatti che li hanno portati lì in uno stato di totale turbamento ignorando ciò che sta avvenendo, a loro completa insaputa, in contemporanea.
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#PagineCritiche - Alla (ri)scoperta dell'inutile necessità della letteratura

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Giorgio Manganelli, o l'inutile necessità della letteratura
di Anna Longoni
Carocci, 2016

pp. 264
€ 25 (cartaceo)



Complesso e ambizioso, scrivere una monografia dedicata a Giorgio Manganelli, autore controverso, dalle molteplici sfumature, difficili da cogliere, perché spesso intellettualistiche e attorcinate attorno alla sperimentazione lessicale, a discapito di una trama unitaria. Leggere Manganelli a volte lascia frustrati, più spesso ammirati, ma soprattutto frastornati dalla sua geniale ricerca stilistica, intrisa d'ironia e satira.
In questo ambiente potenzialmente pericoloso, costellato di numerosissima (ma non sempre valida) bibliografia critica, si muove invece con grande agio Anna Longoni, nel nuovo Giorgio Manganelli, o l'inutile necessità della letteratura, certamente tra i saggi più piacevoli, esaustivi e, al tempo stesso, "aperti" del 2016. Può sembrare strano attribuire tale attributo a un saggio, ma così è, e nell'accezione migliore: nel corso della lettura dell'opera, viene voglia di colmare le proprie lacune su Manganelli, procurarsi tutti i libri mancanti e andare ad ampliare le citazioni che, generosamente, intervallano, innescano o comprovano la riflessione critica. Un tratto comune ai vari capitoli della monografia è l'attenzione di Anna Longoni al testo autoriale, base da cui partire e approdo a cui tornare. Altro elemento imprescindibile, presente fin dal titolo, è la forte impostazione ossimorica delle riflessioni, peraltro coerentissima allo «scrittore che, ossessionato dalla menzogna, ha sostanziato i suoi scritti di autenticità» (p. 15).
Primo ossimoro: Manganelli  
«ha lungamente teorizzato la cancellazione dell'io autoriale: ma l'azzeramento di ogni traccia di sé è soltanto il momento finale del processo creativo, che in lui origina, sempre, da un dolore che è, prima di tutto, individuale» (p. 16). 
E dunque Anna Longoni dedica il primo capitolo a tracciare un interessante ritratto dell'autore, tra contrasti, auto-definizioni (o dovremmo dire "auto-fughe" da sé?), storie amorose, carriera come traduttore e scrittore, giornalista, ricezione di critica e di pubblico. 
Dunque, ci si sofferma sul rapporto metaletterario tra scrittore e lettore. Se autodefinire il proprio lavoro è a dir poco complesso, anche il rapporto di Manganelli con la contemporaneità si rivela controverso, poiché «all'immagine dello scrittore che rimane ai margini e rifiuta il proprio tempo si intreccia quella, contraria, del tempo che rifiuta lo scrittore» (p. 56). D'altra parte, al centro della riflessione di Manganelli si stabiliscono due punti cardine: «l'impersonalità dell'opera e la passività dello scrittore di fronte alla tirannia della lingua» (p. 57), scrittore si riduce a suddito della parola, una sorta di mediatore. Anche il lettore (diversamente da quanto teorizzato da Eco, ad esempio) ha un ruolo passivo: è sottoposto alle parole che un altro decide per lui e, "caverna" o "notturno tombarolo", deve accettare di farsi riempire da parole decise da altri. Come Manganelli precisa in Pinocchio: un libro parallelo:
Un libro non si legge; vi si precipita; esso sta, in ogni momento, attorno a noi.
Godibilissimo è il rapporto che spesso Manganelli intraprende col lettore, già a partire dalle bandelle (bei tempi quando non riportavano solo i numeri delle vendite!), tirandolo in causa, spesso con dichiarazioni ironiche e provocazioni. 
Con grande naturalezza si passa da queste riflessioni al focus sulla letteratura, che deve anzitutto «infastidire, scandalizzare [...]. Asociale e losca, come lo scrittore, non solo non cura le ferite dell'uomo, ma si nutre delle sue sofferenze» (p. 72) e, tuttavia, «concede sollievo alla malattia dell'esistere» (p. 73). Manganelli si sottrae del tutto alla letteratura impegnata, realistica e socialmente schierata; al contrario, proclama la totale inutilità della letteratura e, in nome di questo, la sua stordente libertà. Come sostiene Anna Longoni,
l'opera letteraria, innaturale e inattuale, parla a chi ancora non c'è di ciò che non esiste. [...] Non può accontentarsi di rappresentare la superficie del mondo, ciò che appare, ciò che è. Questa è la ragione per cui, in fondo, tutta la letteratura è letteratura fantastica. (p. 77)
E la letteratura non sta nel romanzo, né nella bontà di una trama: Manganelli sceglie la via dello pseudotrattato o di forme narrative incentrate su monologhi visionari, che rifiutano il contingente e che richiedono una fitta documentazione, garantita da un dizionario sempre sulla scrivania.
Dunque, introdotti i generi più frequentati da Manganelli, Longoni si immerge e ci immerge nella trattazione ravvicinata delle principali opere: Hilarotragedia, Nuovo commento, Il libro parallelo delineano alla perfezione la reinterpretazione manganelliana del trattato, aperto alla sperimentazione più spinta. Varie sono poi le visioni, che entrano in forme narrative decisamente nuove, trattate in un capitolo ad hoc: ed ecco che troviamo Sconclusione e Amore, Dall'inferno, La palude definitiva, Il presepio. 
Anche i racconti sono stati frequentati più volte, definiti da Manganelli «tonde e inafferrabili gocce di mercurio», «polimorfi» e tutt'altro che «monoteisti»: pur con le proprie peculiarità e la diversa misura, Anna Longoni rimarca punti di tangenza con i volumi suddetti, con predilezione per la forma visionaria. 
Infine, l'ultimo capitolo è dedicato alle collaborazioni giornalistiche, fitte e varie, che sono riconducibili soprattutto ai corsivi e a i reportage di viaggio. In questi ultimi, specialmente, si scopre un Manganelli interessato al mondo e alle alterità che allontanano dall'Europa. 
Dalla lettura dei suoi testi non si esce mai uguali a come si è entrati, perché, di certo, un risultato lo ottengono: quello di costringere a spostare il proprio punto di vista sulla realtà, (p. 207)
scrive Anna Longoni nelle Conclusioni. E una cosa va detta: la sua monografia è una splendida torcia che permette di inoltrarsi senza troppi timori tra le tante ombre e le luci improvvise di Giorgio Manganelli: facilita e problematizza, approfondisce e illumina collegamenti altrimenti difficilimente visibili da un lettore alle prime letture manganelliane. E ancora, incuriosisce e invoglia a occuparsi di tutto quel Manganelli che - forse per pigrizia, forse per timore di esserne respinti - ancora giace inerte sui nostri scaffali.
GMGhioni